C’era una volta, e c’è ancora, una splendida collina, residenza di steghe, gnomi, extraterrestri e teatro d’eroiche battaglie in un mitico passato, quando i gloriosi cavalieri locali, persero la vita ma non l’onore di fronte all’immenso esercito nemico del male. Sorge, in questo luogo, scenario di mirabili gesta e di divini incontri, la magica rubrica MISTERIA

LA STORIA...

Lu Scazzamuriedd

di Antonella SOLDO

“Svegliati. Svegliati Teresa Addolorata, che è tardi” le soffiò all’orecchio la solita vocina prima che arrivassero le braccia nerborute della matrigna a scuoterla nel letto. Aprì gli occhi e ne incontrò due piccoli e mobili, neri come il carbone, e in un attimo si infilarono sotto il letto, per sparire. La piccola si catapultò dal letto e con il naso appiccicato al pavimento e il sedere in aria spiava nel punto in cui aveva visto spegnersi quelle due scintille. “Che hai perso?” tuonò Faluccia Padolano trascinandosi nella sua stanza ancora accaldata dal sonno. “Niente” balbettò l’altra . “Allora muoviti, al tuo servizio”. Con un sospiro Teresa Addolorata raccolse tutta la pazienza e la sopportazione possibili e , sollevato il cantero della sua padrona, si avviò alla porta barcollando. Cominciava ogni volta così le sue giornate. Era ormai trascorso più di un anno da quando suo padre Gervasio Cianguarro concorde con la moglie Giustina la mandò a vivere a casa di suo fratello Giovanni e di sua moglie, e ormai aveva anche smesso di smaniare e sbattere i piedi per tornar dalla sua famiglia. “Dio non ha mandato loro dei figli, ma sono ricchi: possiedono le terre più fertili della Puglia piana . Tu sarai la loro unica erede, vedrai: starai bene”. E intanto svuotava i loro canteri. Quella mattina era più pesante del solito e non sapeva come le sue braccina gracili avrebbero fatto a sostenerlo fino al Pascone, “e tutto per pane e coltello” pensò. Al ritorno si fermò alla fontana per sciacquare, quando ecco riaccendersi le due scintille di poco prima. “Ah, sei tu. Esci. Non c’è nessuno”. Da dietro la fontana si fece avanti un omiciattolo alto quanto lei, con un abito lungo fino ai piedi, grigio, come il pelo dei topi, chiuso avanti da grossi bottoni “d’oro purissimo”, come aveva più volte assicurato, e un cappello purpureo, a punta. Il sole stava per alzarsi e un leggero Favonio soffiava una polvere d’oro sul paese rosa-pesca. Dell’aria carica di odori, di dolci e di fiori Teresa Addolorata non riusciva proprio a giovarsi, ma Filippetto sapeva come farle accendere un sorriso, ed era per questo che erano diventati amici. Del come e del perché una bambina e uno scazzamurello strinsero questa straordinaria amicizia girano molte versioni, ognuna con un particolare diverso, ma quella vera la seppero solo loro due, e la custodirono sempre come il più prezioso dei tesori. Ma verosimilmente accadde che una notte agli inizi dell’inverno, quando l’aria si va via via raffreddando e le stelle diacce appaiono sempre più alte, Teresa Addolorata non riusciva a prendere sonno: si girava e rigirava sul materasso di foglie di granturco( era quello che serviva per l’estate), ma il suo corpo proprio non ne voleva sapere di rimanere fermo fermo e riposare. Con gli occhi sbarrati e rivolti al soffitto sentiva distintamente nell’aria immobile le urla bestiali dei lupinari che quella notte, come ogni notte di luna piena, si rotolavano nel fango alla parata tirandosi dietro catene e utensili dei loro lavori: vincoli della vita diurna. La piccola cercava di chiudersi le orecchie premendo forte con le mani, non era poi la prima volta che si addormentava con quel sottofondo. Ma niente. C’era qualcos’altro. Forse aveva dimenticato… “la scopa- pensò- non ho messo la scopa dietro la porta” si alzò ed era proprio così. Se non si fosse ricordata in tempo la scianara avrebbe avuto piede libero in casa. La scopa serviva a tenerla impegnata fino all’alba, infatti, trovandola dietro la porta, sarebbe stata tentata dal contarne i peli, e poiché sa contare solo fino a dieci, avrebbe ricominciato infinite volte, fino a che le prime luci non l’avessero vista dileguarsi. Ma tornata a letto ancora non riusciva a prendere pace. Sentiva qualcosa pungerle e scombussolarle tutto il corpo. Quando sentì crescerle sul grembo un peso, sempre di più. Sapeva che lo scazzamurello poteva diventare pesante anche come un gigantesco macigno, e sapeva anche che se fosse riuscita a strappargli quel maledetto berrettino rosso avrebbe potuto vedere realizzarsi uno dei suoi desideri. In quella che fu una frazione di secondo si vide ricca, una principessa che avrebbe avuto la sua rivincita su Faluccia. E, prima che quel peso le spezzasse il fiato , le sue membra furono capaci di una spinta tale che la fece trovate direttamente a terra… ma il suo atterraggio fu morbido. Sì, il temuto tesserino era sotto di lei e la guardava con terrore mentre diventava sempre più piccolo sotto il fuoco del suo sguardo cupido. La chiave del suo riscatto era lì, a portata di mano, il rosso del berretto le dava alla testa e sentiva sbatterle il sangue alle tempie. Allungò una mano, ma “no, non portarmelo via!”. Quella sottile vocina ruppe la sua determinazione. Lasciò la presa e rimasero entrambi seduti a terra, guardandosi a lungo. “perché dovrei fare quello che mi chiedi? Che cosa avrò in cambio?”. Filippetto ci pensò un attimo, poi disse: “la mia amicizia”. Queste parole disarmarono Teresa Addolorata. Un amico? Lei non aveva mai avuto un amico e non aveva nemmeno mai pensato a come sarebbe stato averne uno. Non riusciva ad immaginarne l’utilità, tuttavia acconsentì. E non ebbe modo di pentirsi: nei mesi a venire Filippetto divenne sempre più il suo sfogo, la sua evasione dal mondo “normale”, il suo angelo custode. Così quando era a casa cercava di finire presto di tirarla a lucido, e quando era a lezione d Annina la Cidognese contava fremente d’impazienza i rintocchi della torre dell’orologio e,quando suonava mezzogiorno, si sparava fuori, scapicollandosi per le scale e per la strada polverosa. “ A cosa penserà questa, che sta sempre con la testa tra le nuvole?- grugnì un giorno Faluccia mentre erano a tavola- non aveva da chi prendere: pazza come la madre- e sentenziò_ “dimmi di chi sei figlio e ti dico chi assomigli”. Allora Teresa Addolorata ingoiò il boccone amaro e decise di non rispondere alla provocazione, di non svelare il suo segreto, ma nei suoi occhi ardenti di sdegno si rifletteva l’immagine di quella donna opulenta che si affaccendava a spolpare un osso, con le mani e i baffi sporchi di sugo, e il disgusto e il disprezzo le crescevano dentro, diventando insopportabili. L’ epilogo fu quando una mattina Teresa Addolorata, prima di andare a scuola, chiese alla matrigna un pezzettino del fegato del maiale che Giovanni aveva ucciso il giorno prima da regalare alla mastra. “Non se ne parla proprio” fu la risposta. “Ma gliel’ ho promesso” ebbe il coraggio di replicare. “Il maiale non l’abbiamo certo cresciuto per la Cidognese”, sputò ancora, mentre le sistemava i capelli tirandoli in una coda così forte che quella sentiva che da un momento all’altro si sarebbero staccati dalla cute. “ Se non me ne dai un pezzettino io non ci vado a scuola”. Faluccia la fulminò “muoviti: vai a scuola”. “No”. Lo schiocco di uno schiaffo ben assestato risuonò in tutto l’antro: la pallida gota si colorò ed avvampò portando i segni della mano pesante. “ Ti sei convinta ora?”. “No” rispose ancora,e “no” rispose anche quando arrivò un secondo, un terzo e un quarto schiaffo. “No” ripetè, terribilmente fiera, mentre intravedeva tra le lacrime Filippetto da dietro la finestra che le faceva segno di smetterla, e il primo sole giocava con i suoi capelli di paglia raccolti da un nastro azzurro di raso, ancora teso sulla nuca. Quando Filippetto uscì a cercarla Teresa Addolorata era già sparita. Aspettò fino a pranzo, ma la sua compagna non tornava. Il vento si infilava nelle strade strette ed assetate, spingendo forte tutto ciò che incontrava. Filippetto saliva, perdendosi tra le casette secche di arenaria giallognola che si rannicchiavano lungo il fianco dolce della collina. Arrivò in cima alla cittadella, con crescente affanno, per il timore di non trovarla nemmeno là , ma una volta dietro i ruderi di quello che un tempo fu un dignitoso castello, la trovò con le gambe incrociate troneggiare sul paesaggio che si apriva dall’altura, scivolando e risalendo con lo sguardo per gli irti pendii. Il cielo era coperto da grossi nuvolosi lividi che s’inzuppavano di un rosa strillante sulla linea dell’orizzonte. Il vento continuava a sbattere e dimenarsi con violenza, come il cuore di Teresa Addolorata. Questa dirò gli occhi e si accorse di Filippetto, lo vide aprire la bocca, per dire qualcosa. Quelle parole non le arrivarono: il vento gliele strappò via subito, ma la bambina capì lo stesso.Allora rispose, in quel linguaggio segreto, sicura che il vento avrebbe rapite le sue parole, le avrebbe spinte nel cielo e magari sarebbero arrivate in qualche posto lontano, sussurrate o urlate, al di là di quei monti che le chiudevano la vista e che rappresentavano per lei i confini del mondo.

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